Olbia, nel nordest della Sardegna, è considerata una delle porte d’ingresso all’isola. A questa provincia appartengono quasi tutti i comuni della Costa Smeralda, e quindi a questa città si associano le immagini di spiagge da cartolina e boutique eleganti. A prima vista la sua storia non sembra molto remota: è una città moderna attraversata da un sistema di strade sopraelevate, ricca di negozi nel centro e lungo le sue vie principali. Tuttavia, nel 1999, durante gli scavi per la costruzione del moderno tunnel sul lungomare, sono state rinvenute ventiquattro navi romane ben conservate, arrivate a noi dal tempo in cui Olbia era un porto romano, anche allora porta d’accesso privilegiata per l’isola.
Ecco, il nostro viaggio nella storia più remota di Olbia può partire da qui, dal tempo in cui la Sardegna era una provincia romana. Magari abbiamo già fatto shopping nei tre centri commerciali che ci sono subito fuori dalla città e stiamo passeggiando in centro, su e giù lungo Corso Umberto, quello che gli abitanti chiamano amichevolmente “il corso”. Siamo davanti al Piazzale Benedetto Brin e, sull’isolotto davanti a noi, vediamo l’edificio che ospita il Museo Archeologico di Olbia. È qui che sono conservate le navi romane. Attraversiamo allora via Principe Umberto e dirigiamoci verso l’isolotto. L’ingresso è gratuito. Il custode ci fa accedere al percorso espositivo e la nostra visita può avere inizio. Nella prima sala del piano terra vediamo i relitti di due delle navi trovate durante gli scavi del tunnel e due ricostruzioni a scala reale di come si presentavano le sezioni di queste navi. Fantastichiamo sugli uomini che hanno navigato su di esse e su come usavano gli oggetti ricostruiti che vediamo qui. Al piano superiore la visita si snoda tra terrecotte, anfore, vasi, sculture e corredi funebri risalenti non solo al periodo romano, ma anche a quello nuragico e cartaginese. È incredibile la somiglianza con molti degli oggetti che anche noi usiamo tutti i giorni: ciotole, vasi, piatti, lame, monete. Ci sono gioielli che piacerebbero anche alle ragazze moderne e piccoli contenitori di vetro per unguenti e creme come quelle che noi mettiamo nei nostri beautycase.
Usciamo dal museo: la nostra curiosità sulla storia più antica di questa città non è soddisfatta, anzi. Abbiamo scoperto che furono i Fenici a insediarsi qui per primi, ma che poi la città passò sotto il potere dei Greci (in greco, “Olbia” significa “felice”) e quindi sotto quello dei Cartaginesi. Continuiamo allora la nostra passeggiata andando a vedere cosa è rimasto dell’antica città punica, risalente alla seconda metà del IV secolo a.C., all’incirca 2400 anni fa. Torniamo in Corso Umberto e raggiungiamo Piazza Regina Margherita, che troveremo facilmente camminando lungo il corso. Da qui, proseguiamo in via Regina Elena fino a trovarci, sulla destra, via Torino. Imbocchiamo questa via e seguiamola fino a piazza Ennio Roych. Proseguiamo sulla sinistra della piazza e arriviamo ai resti delle mura difensive che circondavano l’antica città punica. Si è conservato un tratto della parte occidentale, assieme ai resti di una torre a pianta quadrangolare. Ma che cosa proteggevano queste mura? Una città di cui possiamo vedere i resti nella nostra prossima tappa. Torniamo allora da dove siamo venuti, piazza Regina Margherita. Da qui entriamo in via Porto Romano e proseguiamo dritti fino a trovarci davanti a un passaggio a livello. Siamo in via Nanni e qui, in uno spiazzo erboso, troviamo le rovine dell’antico abitato punico.
Nel 238 a.C. la città venne poi occupata dai Romani, che non ne modificarono l’impianto originale ma la arricchirono di strutture quali le terme e l’acquedotto. Proseguiamo allora il nostro viaggio lungo il passato di Olbia e facciamo tappa nel periodo romano. Torniamo verso via Principe Umberto, verso il Museo Archeologico. Se abbiamo l’auto e l’abbiamo parcheggiata nei posteggi del Piazzale Benedetto Brin, è arrivato il momento di rimettersi alla guida. Andiamo a vedere il tratto meglio conservato dell’Acquedotto Romano, in via Mincio. Usciamo dal piazzale e raggiungiamo la rotonda Su Mulinu, poi prendiamo la prima uscita per entrare in via Principe Umberto. Percorriamo questa via fino a una seconda rotonda e qui prendiamo la terza uscita e seguiamo l’indicazione per via dei Lidi. Seguiamo tutto il Lungomare S. Josemaria Escrivà de Balaguer fino alla rotonda Tilibbas. Entriamo in rotatoria e oltrepassiamo la prima e la seconda uscita. Svoltiamo a destra subito prima del cavalcavia di via dei Lidi ed entriamo in via Adige. Seguiamola finché non diventa via Mincio e proseguiamo fino a vedere il sito archeologico dell’acquedotto sulla sinistra. Parcheggiamo ed entriamo. In uno spiazzo erboso ben curato troviamo i resti di questa opera pubblica realizzata tra il II e il III secolo d.C. Lungo oltre 3 km, era stato pensato per rifornire le terme pubbliche della città. Si vedono ancora bene alcuni archi che sorreggevano la struttura, in leggera pendenza per favorire lo scorrimento dell’acqua, e la vasca di decantazione.
Restiamo in epoca romana, ma spostiamoci. Raggiungiamo ora i resti della fattoria S’Imbalconadu ritrovati subito fuori Olbia. Torniamo indietro e raggiungiamo di nuovo via Adige e la rotonda Tilibbas. Torniamo sul Lungomare S. Josemaria Escrivà de Balaguer. Seguiamolo fino a tornare in via Principe Alberto e proseguiamo fino alla rotonda Su Mulinu e andiamo dritti per entrare in via Genova. Qui continuiamo fino a vedere un bivio e saliamo sulla rampa di sinistra. Proseguiamo fino alla prima uscita sulla destra: siamo in via Giuseppe Sotgiu. Continuiamo fino all’incrocio con via Roma e qui svoltiamo a sinistra in via Roma. Entriamo nella rotonda Paule Longa e andiamo dritti in via Venafiorita fino a che non diventa SP24. Seguiamo la strada fino alla rotonda Su Lizzu. Andiamo ancora dritti fino a oltrepassare un ponte: la fattoria è subito a destra, riparata da un gazebo. Prestiamo attenzione a immetterci nella stradina davanti al cancello che protegge il sito, è ripidissima. Scendiamo ed eccoci tra i resti della fattoria romana, risalente a un periodo tra il II e il I secolo a.C. Si può distinguere, in questo sito, un corridoio centrale, un’area produttiva e una abitativa. Era fatta di blocchi di granito locale e forse, dato lo spessore delle mura, aveva anche un secondo piano.
Ci aspetta ora un viaggio lunghissimo. Ma non in termini di chilometri, bensì di anni. Siamo tornati indietro di più di due millenni per arrivare a questa fattoria, ma ora ci inoltreremo in tempi ancora più remoti, fino a quando la storia non inizia a sfumare nella leggenda. Arriveremo a quasi quattromila anni fa. Riprendiamo l’auto e proseguiamo lungo la SP24 fino a che non vediamo, sulla destra, la via Castello Pedrese. Imbocchiamola e seguiamo la strada fino a raggiungere uno spiazzo in cui possiamo parcheggiare (e, nella stagione estiva, pagare il biglietto d’ingresso). Da qui, si snoda una stradina ben curata che, all’ombra di Castello di Pedres e tra ulivi e perastri in fiore, ci porta fino alla Tomba dei Giganti di Monte ‘e S’Abe. Raggiungiamo il cancelletto ed entriamo nel sito. Non facciamolo di fretta, non lasciamoci distrarre da altro. Questi monumenti, in tutta la Sardegna, non si trovano in punti casuali. Si ritiene che queste opere siano state edificate dove la terra presenta un magnetismo maggiore, dove emana un’energia potente. Abbandoniamo per un attimo il nostro scetticismo moderno. Davvero non sentiamo niente? Il nostro cuore batte più forte, non è così? Ci troviamo nell’esedra, lo spazio semicircolare delimitato da grandi pietre verticali infisse nel terreno, proprio davanti all’entrata del corridoio in cui venivano inumati i defunti. Queste tombe, infatti, non ospitavano grandi uomini, ma erano sepolcri collettivi. La grande stele centrale tipica di queste costruzioni, purtroppo, qui manca. Però possiamo sbirciare con facilità nel corridoio lungo più di ventotto metri. Non facciamoci prendere dalla fretta. Il primo nucleo di questa costruzione, il corridoio, è qui dal XIX secolo a.C. (quasi quattromila anni), per cui non contaminiamolo con una visita sbrigativa. Scattiamo qualche foto e spostiamoci tutt’attorno per cogliere ogni angolazione dell’edificio, ma dedichiamo un po’ di tempo anche solo ad ammirare questo spazio. Spostiamoci all’ombra degli ulivi, di fronte alla tomba, e ascoltiamo: il vento canta tra le foglie, emettendo un inaspettato suono limpido e musicale. Ci troviamo in un luogo sacro che non ci fa sentire intrusi, ma benvenuti.
Restiamo ancora nell’epoca nuragica per l’ultima tappa del nostro viaggio nella storia più antica di Olbia e andiamo a vedere il Pozzo Sacro Sa Testa.
Riprendiamo l’auto e torniamo in città ripercorrendo a ritroso via Castello Pedrese e poi la SP24 fino a tornare in via Venafiorita. Immettiamoci nella rotonda Paule Longa davanti al vecchio cimitero e prendiamo la terza uscita, continuando poi in via Roma. Proseguiamo per trecentocinquanta metri circa e immettiamoci in via Ludovico Ariosto, sulla destra. Al primo stop giriamo a destra e proseguiamo dritti per i successivi due incroci. Seguiamo la curva e poi, all’incrocio, giriamo a destra e poi di nuovo a destra per immetterci sulla strada maggiore Bonacossa. Proseguiamo, entriamo nel tunnel e teniamoci sulla sinistra, seguendo l’indicazione Palau. Usciamo dal tunnel, proseguiamo e poi prendiamo la prima rampa d’uscita a destra. Immettiamoci nella rotonda Europa, teniamo la sinistra e prendiamo la terza uscita per via Indonesia. Seguiamola senza deviare fino all’incrocio con la SP82. Giriamo a destra (attenzione a non entrare in via Mozambico), proseguiamo fino alla rotonda Haiti e prendiamo la prima uscita in viale Italia. Continuiamo fino alla grande rotonda Pozzo Sacro. Spostiamoci sulla corsia più a sinistra e oltrepassiamo la prima e la seconda uscita. Portiamoci sulla destra e prendiamo in direzione Pittulongu. Subito dopo il centro commerciale Gallura entriamo a destra in via Camerun e parcheggiamo l’auto qui nel posteggio. Da fuori, la zona sembra un po’ trascurata, ma basta oltrepassare il primo cancello per ritrovarsi in uno spiazzo curato e armonioso. Vediamo un piccolo caseggiato di legno e un gazebo, e tutt’attorno gli alberi sono contrassegnati con cartelli che ne indicano la specie. È impossibile non esserne incuriositi, così ci ritroviamo a leggere i nomi degli alberi e a osservarli con più attenzione. Incontriamo ginepri rossi, lecci, mirti, lentischi e altre specie tipiche della macchia mediterranea. C’è un sinuoso sentiero lastricato davanti a noi, di cui non si vede la fine. Iniziamo a seguirlo e ci sembra di inoltrarci in un posto magico. Alberi e piante, ognuno con il proprio cartellino, come il gigantesco e vivo erbario di un alchimista, si infittiscono mano a mano che proseguiamo. Perdiamo il contatto visivo con l’ingresso da cui siamo entrati e ancora non vediamo la fine della stradina, e ci sembra impossibile di essere poco fuori Olbia, ai giorni nostri.
Ed ecco infine, dopo un dosso del terreno, comparire il Pozzo Sacro Sa Testa. Siamo finiti nel 1200-1100 a.C., ossia più di tremila anni fa. Anche questo è un luogo sacro risalente al periodo nuragico, dedicato al culto dell’acqua come sorgente di vita e guarigione. Davanti a noi vediamo una corte circolare e il pozzo vero e proprio, anch’esso circolare, a cui si accedeva tramite il vestibolo. Su un lato della corte vediamo dei sedili, e ci immaginiamo le persone di tremila anni fa che si sedevano su quegli stessi sedili per assistere ai riti e portare offerte e doni votivi. L’ingresso buio del vestibolo ci attira e ci avviciniamo ad esso con attenzione. Sbirciando all’interno vediamo l’acqua arrivare a lambire i primi gradini discendenti del vestibolo e, sforzando la vista, distinguiamo anche il fondo della camera circolare del pozzo. Sotto i nostri piedi si snoda una canaletta di scolo che taglia a metà la corte e prosegue al di fuori, correndo lungo tutto il lato del monumento e oltre. Siamo circondati dal silenzio, dagli ulivi che ombreggiano il pozzo e da mille fiori colorati che si spandono per il prato. Godiamoci ancora per qualche istante il sole che inonda questo luogo segreto, prima di imboccare di nuovo il sentiero e tornare al nostro tempo.